Il confine di un abbraccio

Una mattina, una Primavera che si finge Autunno.

Attraverso le sbarre grigie, una persiana blu logora e malmessa si incastra alla sua cornice e lo spazio che rimane alla base è un taglio di luce che penetra nella stanza.

La luce che filtra disegna una retta perfetta e incandescente alla base del rettangolo scuro che sigilla l’infisso. Il muro nero, sporco. Fuori la luce disegna e definisce, dentro lo spazio non prende forma, a nessuna ora della giornata. Da sempre.

Una tela bianca dietro a pennellate blu e nere, un cavalletto storto, disegni pieni di tratti e tratteggi sparati ovunque. Parecchio blu, tanto tanto blu, pennellate di nero dense e pastose.

La tela da pittura segna da sempre il confine che si cerca di trovare fra l’artista e il matto. L’artista da sempre nelle sue opere sublima la sua follia per trasmetterla ad un universo di folli come lui.

Il Confine, punto di separazione e di contatto.

La linea che congiunge la fine e un inizio, il me e il te, il punto di incontro di rette convergenti, la separazione che diventa unione, un abbraccio, la linea incandescente che separa il buio dalla luce. La morte dalla vita.

Dal letto morbido e sporco in cui dormiva Maurino la luce che non entrava mai segnava solo un confine dritto come un taglio laser, fra la persiana blu e il muro nero del davanzale.

Un confine che non aveva mai superato, delle sbarre che nessuno aveva mai aperto per far passare aria, luce, vita.

Io raramente potevo entrare nella sua stanza, capitava raramente e quando accadeva lui si abbassava fino alla mia altezza, delicatamente apriva le braccia e mi accoglieva dentro di sé.

Non si fa toccare da nessuno, io posso abbracciarlo, solo io.

Nonostante non abbia un buon odore e quando mi abbraccia mi rimanga sempre qualcosa di appiccicoso addosso io lo faccio, perchè i bambini hanno chiari gli ordini di priorità, più degli adulti. Lui è felice e io mi sento così importante per qualcuno, finalmente.

Era una mattina di Primavera che si fingeva Autunno, forse perché avevano promesso di venire a Novembre i dottori, forse perché autunno è il mese in cui si cade, dove la natura inizia il riposo, dove tutto cerca il basso, per fermarsi e per rinascere. Una primavera autunnale dove l’aria non si scalda nemmeno ai raggi del sole che attraversa i rami dei grandi tigli. La natura fa confusione e gioca con i colori per prepararci alla sorpresa e all’imprevisto.

Ricordo una mano che mi tiene stretta e che mi tira nella mia bassezza di bambina di sei anni, io che arranco per stare al passo e non sentire tirare troppo il mio braccio sinistro, la presa è decisa e forte ma io sono felice di fare quel gioco con Maurino. Non lo avevo mai visto sorridere tanto con la sua boccata di denti mancanti, storti e ingialliti. Ma la bellezza di un sorriso si misura in quanto è sincero e a me pare meraviglioso, provo anche io a sorridere così, con la mia bocca di denti mancanti. Mi sono caduti i due incisivi e il mio sorriso assomiglia involontariamente davvero a quello di Maurino.

Camminando a passo svelto osservo velocemente il cortile alberato, inciampo sul ghiaino ma lui mi solleva da terra per non ostacolare il suo corso, è un fiume in piena, un cavallo imbizzarrito che ruota a una velocità costante che io non so mantenere. Al secondo giro riosservo i quadri che intravedo dalla finestra del primo piano, il blu e il nero. Blu come il camice di Maurino, nero come i suoi capelli e le dita delle sue mani che mi stringono forte, macchiate di pittura. Provo a sorridere e a dire ‘basta Maurino fermiamoci!’, lui ride più forte e rinforza la stretta. Al terzo giro cerco con lo sguardo qualcuno che possa rassicurarmi o acchiapparmi al volo, alzo gli occhi e non metto a fuoco il quadro ma la finestra del primo piano spalancata, dall’infisso sverniciato e i vetri incrinati. Maurino inciampa in un sasso e fa un balzo più in la trascinandomi con sé, sono sfinita e guardo per terra con la paura di cadere. Ha ai piedi delle Superga che una volta erano bianche adesso sono del colore dei suoi denti e in cima sono tagliate, per far respirare i piedi forse o forse perché non gli entrano più. Una volta l’ho visto scalzo nella sua stanza e le unghie dei piedi erano lunghe e ricurve, i dottori mi dicono sempre che non si fa toccare da nessuno e che non possono lavarlo ogni giorno e ‘prendersi cura di lui’. Per farlo devono addormentarlo o mettergli quelle strane maglie bianche che gli cingono le mani e che lo fanno urlare tanto.

La corsa mi sta sfiancando e ad ogni giro perdo sempre più dettagli di quello che ho intorno. Ciò che vedo si mischia a ciò che sento e le mie sensazioni mi rimandano a ciò che ho visto nei mesi scorsi qui dentro. Per questo non possiamo smettere di correre anche se non ce la faccio più davvero.

Una stanza due metri per due e trenta, da un lato il letto marcio di umido e batteri, odore di sporco vecchio e un vecchio comodino con accanto una sedia. Dall’altro un cavalletto sporco e storto, una scatola piena di colori mai usati, i colori primari e altri bellissimi tubetti colorati e intonsi e vicino una scatola su cui sono appoggiate le tavolozze e i tubetti di blu e nero aperti e spremuti fino alla fine. Il cavalletto a fine giornata è sempre carico di fogli che quando diventano troppi vengono portati via accatastati sul carrello delle presunte pulizie. Come fossero cartacce, come inutili scarabocchi.

Io mi divertivo spesso ad andare a riprenderli e portameli a casa, ho sempre chiesto il permesso a Maurino però, affacciata alle sbarre della sua stanza: ‘posso?’ lui sorrideva e annuiva seduto sul letto mentre si lasciava dondolare cullato dalla morbidezza del materasso sfinito.

Uscivo fiera del mio bottino e a casa davanti a quei fogli disegnati e dai confini tracciati a voce alta mentre giocavo raccontavo la storia di una matto che matto non era. Che di nascosto, grazie a quelle storie mi raccontava chi era, cosa amava fare, chi era davvero e come lo avevano portato li. Non a parole, Maurino non parlava usava la bocca solo per sorridere. Me lo raccontava con i suoi disegni. Tracciava storie reali, volti in cui riconoscevo infermieri, guardie, medici e assistenti, a volte raffigurati come mostri, alcuni come angeli dalle ali blu e nere, come un immenso quadro di Chagall. Qualche volta disegnava una fatina con le ali di libellula vicina al sole e ridendo mi indicava con l’indice sporco di vernice nera. Ero io.

Raccontava le violenze subite e i soprusi. Nessuno si accorgeva di quella storia perchè tutti erano troppo occupati e salvargli superficialmente la vita, a farlo vivere in una stanza sporca e buia, con le finestre serrate e la porta sprangata. A legarlo nelle sere in cui ‘soffriva troppo’ nel suo dolore per ‘essere sicuri non si facesse del male’. Avevano la pretesa di voler sembrare dei benefattori ai miei occhi quando provavano a spiegarmelo, ma io la verità la conoscevo dai suoi disegni.

Correvo veloce attorno al palazzo perché Maurino nei suoi disegni di nero e di blu mi aveva raccontato delle botte, delle punture, degli sputi e della sua infinita solitudine. Disegnava montagne blu con un solo uomo nero, cerchi blu con un puntino nero al centro e disegnava il mare blu e una barca in mezzo al mare con una vela nera issata.

Gli uomini delle pulizie gettavano, io raccoglievo. Per questo non potevo fermare la mia corsa.

Maurino non sapeva che oltre quella finestra al primo piano che non si apriva mai c’era un mondo pieno di odori e colori nuovi, luce, tanta luce e alberi. La sua passione.

Li aveva conosciuti e imparato a disegnare dai libri di botanica che il dottore di guardia del Venerdì gli aveva portato. Ore a osservare gli alberi del librone e ore a ridisegnarne in blu la geometria, le proporzioni, le dimensioni. Io a casa li ritagliavo e li attaccavo un pò ovunque quegli alberi blu. La mia camera era diventata la succursale della camera di un matto. “Quello del blu e del nero” come lo chiamava la nonna.

Corro con le immagini della sua storia illustrata che mi scorrono sotto gli occhi e a un tratto Maurino si ferma. Rosso in volto mi guarda e io ho la sensazione che il cuore passandomi dalla gola e poi dalla bocca voglia proseguire questa folle corsa. Stiamo li un tempo interminabile. Alza gli occhi guarda gli alberi e ammiccandoli mi fa un cenno come dire ‘li vedi come sono belli dal vero?’.

I Tigli di San Salvi che si comportano come fosse autunno anche se è primavera, sono così belli da togliere il fiato che manca già a causa della folle corsa. Ha appena varcato un confine Maurino, di uno spazio chiuso e sbarrato da cui era impossibile uscire, di un mondo inventato e disegnato che è diventato reale, improvvisamente si rende conto che i suoi due colori non gli bastano più, che il mondo non è blu e nero che la luce ci insegna a vedere la realtà e che disegnare tutto questo sarà un altro confine da superare.

Questa mattina degli uomini guidati da una equipe di medici hanno iniziato una grande rivoluzione, studiata per anni e realizzata in un giorno.

Hanno camminato nel vialetto mentre io gli saltellavo attorno allegramente vestita a colori, con le code alte e le mie gambe magre evidenziate dalla gonnellina. Stamani per la mano a uno dei dottori sono salita nella stanza di Maurino al primo piano ‘lo accompagni tu fuori Maurino?’ ‘Siiiii che bello!’ ho gridato sentendomi privilegiata e immaginandomi una corsa con lui lungo le scale e l’emozione che avrebbe provato nell’ essere libero.

Siamo arrivati alla stanza che fuori c’era piena luce e lui ancora al buio stava disegnando un grande albero blu. Il Medico è entrato nella stanza e lui sorridente seduto sul letto lo ha osservato. ‘Buongiorno Maurino, adesso faccio una cosa che qui non è mai stata fatta! Preparati’. Rapidamente senza spiegare altro, senza aspettare un suo cenno ha attraversato la stanza e aperto le finestre liberando le persiane, facendo entrare una quantità di luce accecante e costringendoci tutti a chiudere spostare lo sguardo. Io ero pronta a prenderlo per mano e condurlo verso la libertà. La luce invece ci ha fatto chiudere gli occhi e nello stesso tempo in cui li riaprivamo un tonfo sordo accompagnato da una rumore di rami che si spezzano ci ha costretti a riaprirli, guardarsi intorno, impaurirsi. Dall’entrata della stanza dove mi trovavo il mio grido ‘Maurinoooo!’ e la mia corsa verso la finestra aperta. Mi affaccio e tutti corrono ad affacciarsi con me. Fra rami rotti e fogliame sparso Maurino era li, immobile, una macchia blu distesa storta e due macchie nere vicino che tengono stretti due ramoscelli.

Dalla finestra aveva intravisto gli alberi, il suo corpo non conosceva misure, la sua vita passata in quella stanza non lo aveva educato al grande, piccolo, alto, basso, vicino, lontano e lui si era gettato nel vuoto non riconoscendo l’altezza e la distanza dall’albero di fronte. Un passo nel nulla e aveva trovato sotto di sé il vuoto.

Una corsa per le scale da parte di tutti e lo troviamo, in piedi, sorridente, senza denti e con le scarpe rotte che guarda in sù. Abbassa lo sguardo oltrepassando i medici e trova il mio. Mi viene incontro e mi allunga la mano che afferro con tutta la forza che ho iniziando a trottare di felicità con il mio amico matto preferito. Un giro dopo l’altro, una sensazione dopo l’altra e lui che non si ferma, come volesse recuperare in una volta sola tutti i giri che non ha fatto sino ad ora. Ha varcato il confine del blu e del nero, è diventato parte di quella luce che intravedeva dalla finestra e adesso guarda il sole diretto come se le sue pupille non ne sentissero il fastidio. Giocando con la luce, osserva, cerca le ombre, rincorre le sfumature. I medici lo avvicinano per provare a fermarlo, un medico mi porge una scatola da dare al mio amico. Lo guardo, Maurino sorride eccitato, io dal basso con il dito gli indico la spalla destra, una foglia rimasta li, attaccata dopo il tonfo. Si guarda la spalla, guarda me sorridendo, riguarda la foglia e con delicatezza la raccoglie. I suoi occhi cambiano profondità, guarda la foglia, alza lo sguardo verso il grande tiglio e poi riguarda la foglia. Ride e i denti sono disordinati ed entusiasti come lui. Mi guarda annusandola, chiude gli occhi apre la grande bocca e la mangia masticandola con lentezza, con la bocca piena mi osserva saltellargli davanti e farli il gesto con le dita della mano per dirgli ‘no non si fa!’ ma lui ride ed è così felice che continuando a masticare inizia a lacrimare. Quanta felicità proporzionale alle sofferenze provate per decenni, per una vita intera, sin da quando adolescente lo avevano portato via perchè era ‘strano’, una madre che non lo avvicinava mai da cui non aveva ricevuto mai un abbraccio, la sua scelta di stare spesso con i suoi nonni e non parlare quasi con nessuno e un giorno a scuola ha preso a schiaffi una maestra urlandogli tutto il suo dolore di bambino abusato. Da quel giorno non ha più parlato. Mai più. Dalla puntura che lo ha steso per ‘prendersi cura di lui’, per proteggerlo, un ragazzino di dieci anni, da quel giorno in poi emette solo suoni di dolore quando i medici si prendono ‘cura di lui’. Io smetto di obiettare alla sua degustazione di foglie, alzo il braccio indolenzito e gli porgo la valigetta. Lui la prende, maldestramente la apre rompendo la chiusura metallica ed escono fuori dieci tubetti di colore nuovi. Maurino li raccoglie con passi agitati, osserva ogni tubetto, lo guarda da tutti i lati e per ogni colore inizia a correre e appoggiarlo vicino all’oggetto del colore simile. Il grigio su un sasso, i verdi vicino alle foglie della siepi di bosso che delimitano i vialetti, l’arancio vicino alla calendula che spunta dal prato, il celeste accanto alla fontana. Ogni colore è un pezzo di realtà. Ogni colore diventa il confine fra follia e creatività.

Maurino e i matti di San Salvi sono liberi.

Io torno da lui spesso, lui ride sempre, adesso la sua stanza ha porte e finestre normali e la mattina quando si sveglia corre subito alla finestra a riempirsi di luce prima di mettersi a dipingere.

I suoi disegni sono esplosioni di colore e il blu e il nero non li usa più. Li tiene da una parte per firmare i quadri o i disegni una volta finiti, “Maurino, Il Matto, artista liberato”. La sua firma.

Dal mio giro forsennato per San Salvi ho scelto di tenere nella mia vita meno confini possibili, meno separazioni possibili, di arrivare sempre sul punto di divisione per cercare un contatto, di spingermi sempre un pò oltre la linea che separa come nel più sincero degli abbracci.

Per abbracciare con il cuore devi esattamente attraversare il tuo confine per perderti in quello dell’altro. Ci vuole coraggio. Ma non puoi farne a meno.

Il miracolo dell’abbraccio è il superamento della separazione.

Me lo ha insegnato Maurino e come lui davvero in vita mia non mi ha più abbracciato nessuno.

Elena Miniera – il confine di un abbraccio

Grazie a Franco Basaglia

Grazie ai medici e volontari che hanno creduto e lavorato al progetto

Grazie ai miei genitori, educatori per natura

Grazie a Paolo Tranchina, forza di un movimento che ha rivoluzionato il cuore di molte persone

Grazie a San Salvi, alla Tinaia e a tutti gli artisti che hanno tracciato dolori, amori e sofferenze nel corso degli anni.

Nel Settembre 2022 questo pezzo è stato letto da Salomè Baldion, attrice bravissima della compagnia teatrale Chille della Balanza.

In una notte magica, che è ben raccontata in questo video. Grazie a tutti. La scrittura mi regala soltanto belle emozioni, da sempre.

Lascia un commento